Cinema"L'ufficiale e la spia" di Roman Polansky

di Mara Marantonio

Georges Picquart: “Qualcuno deve raccontare questa storia. Come ufficiale in servizio non posso farlo”

Émile Zola: “Voi no. Ma io sì!”

 

Il 5 gennaio 1895 nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart, ufficiale dell’esercito francese, assiste alla pubblica condanna e alla tremenda degradazione di Alfred Dreyfus, capitano alsaziano, ebreo, accusato di essere una spia al soldo della Germania; di aver cioè rivelato segreti relativi alla Difesa all’addetto militare tedesco a Parigi.

Dopo il giudizio sommario e l’umiliazione segue la condanna ad essere confinato sull’isola del Diavolo (Guyana francese).

Il caso sembra chiuso.

Ma qualcuno non si accontenta della verità ufficiale e inizia ad indagare, perché, anche dopo la condanna di Dreyfus, l’attività di spionaggio continua.

Il maggiore, poi promosso tenente colonnello, Picquart, nominato responsabile della Sezione di Statistica del Servizio Segreto francese (al posto del maggiore Sandherr, confinato in casa con la moglie, sifilitico all’ultimo stadio, nonché antisemita patentato), scopre incongruenze e contraddizioni in quelle stanze umide e polverose, dove i Servizi avevano fabbricato le false prove che avevano portato alla condanna dell’ufficiale ebreo.

Picquart, per sua tranquilla ammissione, non ama affatto gli Ebrei; ma il suo è un antisemitismo, per così dire, in dosi..omeopatiche -così diffuso in Europa; anche oggi, a ottant’anni dalla Shoah- che non gl’impedisce di ricercare la Giustizia per consentire la condanna del vero colpevole.

Egli si confronta anzitutto con gl’inganni e le reticenze del suo immediato sottoposto, il maggiore Hubert Joseph Henry.

I due personaggi sono l‘uno l’opposto dell’altro.

Per Henry l’Onore e la Giustizia stanno solo all’interno dell’Esercito. Se l’Esercito mi ordina di uccidere un uomo, afferma petto in fuori, io lo uccido, se anche fosse un errore, io non ne avrei colpa.

Picquart lo azzera con la sola risposta degna: Forse questo è il Vostro esercito, ma non il mio.

Il cuore del problema è tutto qui: due visioni della vita e del mondo inconciliabili.

Roman Polanski, tra i più importanti registi della storia del cinema, nato nel 1933 a Parigi, ebreo di origine polacca, ha avuto un’esistenza molto drammatica.

Da quando, a soli tre anni dovette lasciare con la famiglia la natia Francia a seguito delle persecuzioni antisemite e rifugiarsi in Polonia, passando per la fuga dal ghetto di Cracovia, nel 1943. Madre uccisa ad Auschwitz, padre ritrovato anni dopo.

Vita privata da brivido, tragicamente nota, sulla quale non mi intrattengo; insomma una sorta di poeta dannato, ma di genio, che ci ha regalato grandi capolavori; uno per tutti, Il Pianista.

Nella sua ultima pellicola -L’Ufficiale e la Spia, titolo assai meno significativo di quello originale J’accuse- ci racconta il più rilevante conflitto politico / sociale della cosiddetta “Terza Repubblica” che divise aspramente la Francia dal 1894 al 1906, a seguito dell’accusa di spionaggio a carico del capitano di artiglieria ebreo, accusa rivelatasi poi falsa; colpevole era infatti, lo si scoprirà con rischio e fatica, il colonnello Ferdinand Walsin Esterhazy.

Mi limito, nel racconto della vicenda, al solo inizio, al casus belli.

Il 26 settembre 1894, Madame Bastian, un'anziana addetta alle pulizie nell'Ambasciata di Germania a Parigi, consegna come al solito il contenuto del cestino per la carta straccia dell'attaché militare, Maximilian von Schawarzkoppen, al maggiore Henry, citato sopra, addetto alla vice-direzione del bureau di controspionaggio del Ministero della Guerra francese, chiamato in modo eufemistico Sezione di Statistica. Il maggiore Henry trova una nota, chiamata poi bordereau, in cui si dà una lista di 5 documenti segreti che l'anonimo scrivente (la lettera non è firmata né datata) si offre di vendere ai tedeschi. Alcuni di quei documenti riguardano i cannoni, altri la mobilitazione: alla Sezione statistica si pensa subito che solo un ufficiale di stato maggiore che abbia prestato di recente servizio nell'artiglieria possa aver avuto accesso ai documenti in questione.

Tra i quattro o cinque ufficiali sospettabili, c'è Alfred Dreyfus, la cui grafia parve vagamente somigliante a quella vergata sul bordereau.

Soggetto ideale per essere, come si suol dire, preso in mezzo: alsaziano, ebreo e, per soprammercato, un ebreo con una bella famiglia, di condizione agiata, con ottime conoscenze.

La vicenda costituisce un punto nevralgico nella vita politica francese, incuneato tra la sconfitta amara nella guerra franco/prussiana e il primo conflitto mondiale, induce ministri alle dimissioni, si rischia un colpo di stato…Nell’arco di circa vent’anni la pubblica opinione si divide aspramente, tra i sostenitori della colpevolezza dell’ufficiale ebreo e chi ne difende l’innocenza.

Tra questi ultimi, pochini per la verità tra le persone che contano, c’è, ad esempio, Marcel Proust e, soprattutto, Émile Zola, il quale indirizza al Presidente della Repubblica Félix Faure , il 13 gennaio 1898, dalle colonne del quotidiano L’Aurore, l’appassionata celebre lettera-manifesto dal titolo J’accuse. A seguito di ciò lo stesso quotidiano pubblica un manifesto firmato da alcuni uomini di cultura che chiedono la revisione del processo.

La condanna di Dreyfus fu un errore giudiziario, figlio dell’antisemitismo imperversante nella società francese -nulla cambia nel corso del tempo-, del clima politico invelenito dalla perdita dell’Alsazia e di parte della Lorena a seguito degli eventi del 1870/’71.

Zola pagherà caro il suo gesto: un attacco frontale contro esercito e politica; fa nomi e cognomi. Averne oggi di intellettuali così! L’establishment politico miliare lo perseguita: viene condannato per “vilipendio alle forze armate” ad un anno di carcere e alla multa di 3000 franchi.

Andrà a Londra in esilio, ma, grazie a lui, nulla rimane come prima. O quasi.

Nel giugno 1899 la Corte di Cassazione annulla la sentenza di condanna del 1894; poco dopo inizia un nuovo processo che porta di nuovo alla condanna dell’ufficiale, pur con attenuanti: 10 anni di detenzione. Mah.

Il Presidente della Repubblica firma la grazia per l’imputato, pochi mesi dopo.

La riabilitazione definitiva l’avremo solo nel 1906.

Tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris (2013, uscito l’anno dopo in Italia con Mondadori), cofirmatario della sceneggiatura col regista, Roman Polanski ci regala un’opera asciutta essenziale, aderente in pieno ai nostri tempi di fake news, di verità prefabbricate, di demonizzazioni montate con sprezzo del ridicolo (pure ad opera di persone, per altri aspetti, colte e rispettabili). Una perfetta ricostruzione d’ambiente, in cui omertà, ipocrisia le annusi come il tanfo di muffa che staziona nei corridoi della Sezione di Statistica del Servizio Segreto dove il Colonnello Picquart, interpretato dal sempre ottimo Jean Dujardin, si muove indomito alla ricerca della verità.

La pellicola ha ricevuto il Gran Premio della Giuria all’ultima Mostra del Cinema di Venezia; non il Leon d’Oro, data la fama di maudit che accompagna il regista. E poi perché non si assegna il massimo premio ad un film che condanna l’antisemitismo in doppiopetto, andiamo!

A presenziare la moglie di lui, l’attrice cinquantatreenne francese Emmanuelle Seigner (insieme alla figlia della coppia, la venticinquenne Morgane). Una bella donna dall’aria misteriosa e dallo sguardo catturante, che divide dal 1989 la propria vita, sentimentale ed artistica, con quella di Roman, vegliando con amore sui suoi incubi. Non dev’essere impresa facile.

All’inevitabile domanda sulla coincidenza tra le accuse di stupro indirizzate al regista dalla ex modella Valentine Monnier a circa un quarantennio (sic!) dai fatti (smentiti) e l’uscita del film, ella risponde: “Non credo che nulla accada per caso; il film dimostra che, se qualcuno è accusato di qualcosa, non significa che sia colpevole sul serio. Su questo tema tutti dovremmo riflettere”.

E ancora: “Questa [di Dreyfus] sarà sempre una storia universale perché ovunque l’antisemitismo è ancora forte e presente e perché è sempre accaduto che si siano scelte persone a cui far pagare colpe inesistenti. Il film parla di sentimenti contemporanei molto importanti, il razzismo, la paura, l’odio per l’altro da sé, il rapporto con la verità…Ad un certo punto, nel film si dice che quando si arriva a certi livelli significa che la società è in via di decomposizione. Mi sembra che oggi di società giunte a questo punto ce ne siano parecchie”. Piene di ipocrisia aggiungo. Un esempio: la Presidente della Giuria del Festival aveva, in un primo momento, invitato al boicottaggio del film; tentativo poi venuto meno.

La Seigner ha un piccolo, ma significativo ruolo nel film. Interpreta Madame Pauline Monnier (coincidenze della vita), moglie di un rispettabile signore, nonché amante di Picquart.

Tanti anni prima, quando non era sposata, avrebbe desiderato essere moglie del brillante giovane ufficiale, ma questi non aveva voluto saperne di un legame definitivo.

Ella allora aveva ripiegato su Monsieur Monnier, riprendendo però in seguito anche l’antico rapporto. E’ una donna libera, che fuma senza problemi e ritiene di non dover rendere conto a nessuno. Pare che, nella realtà storica, sia stata proprio l’appassionata Pauline a spingere il suo amante a far luce senza paura sull’affaire Dreyfus.

Allorché il matrimonio va a rotoli su iniziativa di lei, Picquart le offre il matrimonio, ma la donna -con ironia e decisione- rifiuta. Gran bel personaggio, in grado di “vendicarsi” con un sorriso.

Come profonda simpatia la ispira Luca Barbareschi, celebre attore e regista, nonché produttore di sceneggiati televisivi di notevole successo, oltre che di questo film.

L’Ufficiale e la Spia ha esordito nelle sale italiane (notevole afflusso di pubblico, critiche lusinghiere; anche se, al solito, ti domandi quanto pubblico e critica abbiano colto l’attualità del messaggio) con la proiezione al Cinema / Teatro Eliseo di Roma, di cui Barbareschi è direttore artistico.

Legato a Polanski da un‘amicizia di lunga data, si è fatto riservare una particina, poco più di un cameo: quella del non invidiabile Monsieur Philippe Monnier, il coniuge tradito!

D’altronde pure lo stesso Roman appare silenzioso in un paio di scene, in stile Alfred Hitchcock.

Ma il vero protagonista del film è una realtà antica e terribile -dai mille volti, che chiunque avrà la bontà di leggermi può approfondire da sé-, la quale, negli ultimi anni ha rialzato prepotentemente la testa in Europa, nell’Europa dei Diritti, ma pure della Shoah, realtà ignorata dai più. Classi dirigenti ed opinione pubblica possono darsi la mano, con le inevitabili conseguenze sotto gli occhi di tutti. Oocchi ben serrati, peraltro; Eyes wide shut, per dirla con un altro illustre uomo di cinema, Stanley Kubrick.

L’Antisemitismo.

Nel film, a parte alcune scene tremende di devastazione delle botteghe di proprietà ebraica, che anticipano quello che avverrà in un prossimo futuro, esso resta, per lo più sullo sfondo, non è, per così dire, sbandierato più di tanto. Questo lo rende ancora più spaventoso.

C’è la scena finale. Non è uno happy end.

Allorché Dreyfus (cui dà il proprio volto il giovane, bravo Louis Garrel), reintegrato nell’esercito del suo Paese, si reca da Picquart -divenuto nel frattempo ministro- per chiedergli che gli vengano riconosciuti gli anni di prigione scontati da innocente, in forza dei quali gli spetterebbe il grado di tenente colonnello, ebbene Picquart, che pure si era tanto dato da fare per lui, gli risponde, senza complimenti, che ciò non è possibile, che il riconoscimento non rientra nei poteri dell’esercito.

Ergo: le leggi che Picquart aveva sfidato e che gli avevano causato due anni di prigione, gli hanno consentito poi di diventare ministro; ma esse non valgono per Dreyfus; non valgono per l’Ebreo.

Giustizia resa a metà; che nulla può contro il Pregiudizio; pericolo ignorato anche oggi, torno a ribadire. Pur con tutto quello che è accaduto nel secolo scorso.

Nel recensire questo stupendo film i miei amici di Informazione Corretta, che con me sono stati colpiti dal confronto finale, che getta una tragica luce su tutta la vicenda, formulano un auspicio.

Perché Roman Polanski, figura con ombre e luci, ma non certo priva di coraggio, non fa un film su Theodore Herzl? Questi è a Parigi all’epoca dell’Affaire Dreyfus, assiste a diverse sedute del processo come inviato della Neue Freie Presse. Da quella tragica storia ha avuto origine il sogno di Herzl, realizzatosi tanti anni dopo: il Sionismo che ha portato alla (ri)costruzione dello Stato di Israele.

Perché no, sulfureo Roman? Soltanto uno come Lei potrebbe affrontare un tema così politicamente scorretto.

Sarebbe una bella sfida.

 

(Titolo originale J’accuse; USA, 2019; Genere: Drammatico, Storico, Thriller)

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