Libri"L'inizio di qualcosa di bello" di Lizzie Doron
di Mara Marantonio
E’ di nuovo con i suoi lettori Lizzie Doron, l’originalissima scrittrice israeliana (Tel Aviv, 1953) che abbiamo scoperto solo sei anni fa ed amato subito per la prosa essenziale e succosa, lo stile ironico in grado di farti sorridere tra le lacrime. D’altronde, come lei stessa afferma, mai avrebbe potuto vivere senza un certo senso dell’umorismo; qualità ereditata dalla madre, Helena, la quale, nonostante le vicissitudini patite, era una donna molto spiritosa.
“L’inizio di qualcosa di bello”, pubblicato in Israele nel 2007 - la quarta opera in ordine cronologico-, è il suo quinto romanzo uscito in Italia, edito, come i precedenti, da Giuntina di Firenze. Un…assaggio lo abbiamo potuto gustare in occasione della “Festa del Libro Ebraico in Italia”, tenutasi a Ferrara dal 26 aprile all’1 maggio scorsi, quando nel corso di uno dei tanti “Colloqui con l’Autore”, Lizzie ci ha confidato le circostanze che l’hanno portata a scrivere questa storia, che approfondisce le tematiche da lei preferite; e non solo.
La trama si presenta come un complicato intreccio esistenziale: emozionante quanto impossibile triangolo amoroso tra i protagonisti, Amalia, Hezi e Gadi. Tre coetanei, figli di sopravvissuti alla Shoah, cresciuti insieme in un quartiere di Tel Aviv (Bitzaron , Fortezza), abitato da sopravvissuti alla Tragedia. Un ambiente chiuso, dove, per lo più, le persone giunte dall’Europa non parlano ebraico, ma le lingue dei Paesi di origine: soprattutto lo yiddish, ma anche il rumeno, il polacco, l’ungherese…Luogo di nostalgie, di dolori mai dimenticati, di incubi ricorrenti, di speranze appena abbozzate, perché mai sviluppatesi appieno.
Nei protagonisti sono adombrati tre amici dell’Autrice, ai quali ella ha aggiunto qualche particolare o caratteristica, frutto di fantasia. Col suo stile magico Lizzie è in grado sia di suscitare nel lettore emozioni nuove, conducendolo lungo strade inesplorate, sia di commuoverlo nel riproporre temi a lei cari, perché legati alla sua esperienza personale; come, ad esempio, l’influenza traumatica prodotta dalla Guerra di Yom Kippur (autunno 1973) sui coetanei o il fatto che i genitori, sopravvissuti alla Shoah, considerassero tale Tragedia una sorta di paradossale unità di misura dell’esistente. “Ad Auschwitz [lei] sarebbe stata in grado di procurare la zuppa migliore” oppure, al contrario, ”Laggiù [quello] non avrebbe resistito un giorno”.
O i complessi, dolorosi intrecci tra le persone che tali terribili esperienze hanno saputo comporre o, più sovente, frantumare. Tutto conosciamo attraverso le testimonianze dei tre ex giovani. Un percorso tragico e commovente, al termine del quale, forse, ci può essere una piccola speranza di serenità. Forse una luce, ma il prezzo da pagare sarà, ancora una volta assai doloroso.
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