Lechà Dodì

CuriositàLechà Dodì

di Georges Chouraqui

In una sinagoga di Gerusalemme.

La funzione è terminata, David si dirige rapidamente verso la fila dove sono sedute le personalità, per salutare e dire "Shabbat Shalom" al rabbino e alle poche persone di sua conoscenza, e poi voltandosi si incammina verso l'uscita. Ora bisognava rientrare a casa per il Kiddush.
Mentre si appresta ad uscire, mosso da un impulso improvviso, si volta a guardare i fedeli che vengono fuori dalla sinagoga uno ad uno. Guarda con attenzione.
C’è qualcuno che è solo e che potrei invitare? Be', chi è quello ancora seduto vicino alla parete laterale?
Conosco praticamente quasi tutti qui, e non mi sembra di averlo mai visto".
David si avvicina al giovane sconosciuto e lo esamina con occhio esperto.
Tuta, uno zaino, carnagione scura, capelli castani ricci: senza dubbio un sefardita, probabilmente un marocchino ...

Ci pensa su un attimo e poi si dirige verso il giovane tendendogli la mano in un gesto di accoglienza: "Shabbat Shalom, mi chiamo David Einfild . Ti va di cenare a casa mia stasera.?"
Il volto del giovane si illumina subito con un grande sorriso. "Sì, grazie. Mi chiamo Mochi". Poi prende il suo zaino e insieme lasciano la sinagoga.
Pochi minuti dopo, sono a casa di David, tutti in piedi attorno al tavolo apparecchiato per lo Shabbat. Mentre tutta la famiglia canta "Shalom Aleichem", David nota che il suo ospite non canta. "Forse è timido, oppure è stonato", pensa. Il ragazzo lo gratifica con un altro dei suoi grandi sorrisi e cercando di seguire, senza molto successo, ma ovviamente, facendo del suo meglio.

Il pasto comincia e l’invitato si rilassa un po', ma sembra sempre un po' nervoso e praticamente non parla. David, se ne rende conto e fa in modo che la conversazione si mantenga su argomenti generici o limitati a riflessioni sulla parashà della settimana oppure sui fatti citati dal telegiornale. Dopo il pesce, David nota che il suo ospite sfoglia la raccolta delle zmiroth (canti dello Shabbat), come se stesse cercando qualcosa. Glielo chiede con un sorriso: "Vuoi cantare qualcosa? Posso aiutarti se non sei sicuro del brano?". Il viso di Mochi si illumina all'istante. "Sì, c'è un’aria che mi piace cantare, ma non riesco a trovarla. Mi è tanto piaciuto che l’abbiamo cantata questa sera nella sinagoga. Com’era?

Qualcosa con "Dodì" ... " David stava per dire: "E' che di solito non la si canta a tavola ..." ma si riprende subito e pensa tra se’: "Dopo tutto, se lo rende felice, che male c'è?". Poi continuando ad alta voce: "Vuoi dire che è Lechà Dodì? Aspetta, ti do un libro di preghiere?".

Dopo aver cantato Lechà Dodì, il giovane torna silenzioso fino a dopo la minestra, quando David gli chiede: "E adesso che cosa vorresti cantare?" L'ospite sembra imbarazzato, ma dopo essere stato incoraggiato, dice con fermezza: ". Mi piacerebbe cantare ancora Lechà Dodì "

David non si sorprende quando, dopo il pollo, chiede nuovamente al suo ospite, cosa desidera cantare e il ragazzo gli risponde: " Lechà Dodì, per favore". David sta quasi per esclamare: "Cantiamo un po' più piano questa volta, i vicini penseranno che sono pazzo", ma cambia idea.
 

Alla fine, David, non ne può più e gentilmente prova a suggerire: "Non vorresti cantare qualcos'altro"? Il suo invitato arrossisce e abbassa lo sguardo. "Il motivo è che mi piace molto questa melodia," mormora. "C'è qualcosa in essa... mi piace molto." Beh, hanno dovuto cantare otto o nove volte "la melodia". David non sapeva più quante…. aveva perso il conto.

Più tardi nella serata, quando si poteva parlare tranquillamente, David gli disse: "Non abbiamo avuto molto tempo per chiacchierare. Di dove sei?" Il ragazzo lo guardò imbarazzato, poi, guardando il pavimento, disse piano: "Da Ramallah".

David sentì il suo cuore fermarsi in petto. Non era sicuro di aver sentito il giovane dire "Ramallah", una grande città araba della Giudea e Samaria. Ma si riprese rapidamente, pensando che avesse detto "Ramleh" una città israeliana. Davide perciò rispose: "Oh, sì, ho un cugino lì.

Conosci Effie Goldberg? Vive in Via Herzl. Il ragazzo scuotendo la testa dice con tristezza: "Non ci sono ebrei a Ramallah". David rimane a bocca aperta. Aveva quindi detto: "Ramallah"! I suoi pensieri precipitano.

Ho quindi passato la sera dello Shabbat con un arabo? Non devo farmi prendere dal panico! Cercherò di respirare profondamente e cercare di vedere le cose in modo più chiaro.”

Scuotendo la testa in modo rapido dice al giovane: "Mi dispiace, sono un po' confuso. Per inciso, non ti ho chiesto nemmeno il tuo cognome. Come ti chiami?”

 

Il giovane per un momento sembra atterrito, poi, irrigidendosi, dice a bassa voce:

"Brahim Ibn-Esh-Hussein". Mochi ora sembrava ancor più terrorizzato. Ovviamente, sapeva cosa stava pensando David. Grida all'improvviso, "Aspetta! Io sono ebreo! Sto solo cercando di scoprire dove si trova il mio posto". David era senza parole. Cosa poteva dire?

 

Mochi esita, poi rompe il silenzio. "Sono nato e cresciuto a Ramallah. Mi è stato insegnato ad odiare i miei "oppressori" ebrei e a pensare che ucciderli è un atto eroico. Ma ho sempre avuto dubbi in proposito. Impariamo che la Sunna (N.d.T. codice di comportamento), la tradizione dice che "Nessuno tra voi è un credente finché non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso" e ho riflettuto e mi sono chiesto, ma gli Yahud (ebrei) non sono anch’essi un popolo? Non hanno come noi, il diritto di vivere? Se dobbiamo essere buoni con tutti, come è possibile che gli ebrei sono tenuti lontani?"

"Ho posto queste domande a mio padre e lui per tutta risposta mi ha cacciato da casa, con nient'altro che i vestiti che avevo addosso. Ma la mia decisione è stata presa:.. Volevo partire e vivere con gli Yahud fino a che non mi chiarivo le idee su ciò che sono realmente".

Mochi continua:

"Quella notte sono tornato a casa a raccogliere le mie cose e metterle nel mio zaino. Ma mia madre mi ha sorpreso nel pieno dei preparativi. Era pallida e turbata, ma calma e mi parlava dolcemente. Le ho spiegato che volevo andare a vivere un po’ di tempo con gli ebrei, per vedere come sono realmente e che forse, mi sarei convertito.

 

"Nell’ascoltarmi, diventava sempre più pallida e pensavo fosse arrabbiata, ma mi sbagliavo. E' stato qualcos’altro che l’aveva colpita. Mormorò:.." Non hai bisogno di convertirti. Tu sei già ebreo".

"Ero in stato di shock. La mia testa cominciò a girare e per un po’ non sono stato in grado di parlare. Poi ho balbettato: "Che cosa vuoi dire? "

"Nel giudaismo, mi ha detto, la religione si trasmette attraverso la madre. Sono ebrea e questo significa che anche tu sei ebreo."


"Non ho mai avuto il sospetto che mia madre potesse essere ebrea. Immagino che voleva che nessuno lo sapesse. Non doveva essere molto felice della sua vita perché sussurrò all'improvviso:.. "Ho fatto una errore sposando un arabo. Attraverso te, la mia colpa sarà redenta."

Mia madre ha sempre parlato così, in modo quasi poetico. Si allontanò e tornò porgendomi dei vecchi documenti: "questo è il mio certificato di nascita e questa vecchia carta d'identità israeliana, mi permette di provare che ero ebrea. Li ho qui con me, ma non so cosa farmene".

"Mia madre teneva ancora in mano un documento che esitava a darmi. Finì per dire:." Ci tengo tanto che tu prenda anche questo. È una vecchia foto dei miei nonni, che è stata ripresa mentre cercavano la tomba di uno dei nostri antenati molto venerati. Andarono a nord e hanno trovato la tomba, ed è là che questa foto è stata scattata. "

David posa dolcemente la sua mano sulla spalla di Mochi, il quale alza lo sguardo e si legge nei suoi occhi un misto di paura e di speranza. David chiede: "Hai una foto con te?" Il viso del ragazzo si illumina. "Sì, certo, la porto sempre con me". Cerca nel suo zaino e tira fuori una vecchia busta sgualcita.

David tira fuori con attenzione la foto dalla busta, indossa gli occhiali e guarda con attenzione. Quello che vede in un primo momento è una foto di gruppo: una vecchia famiglia sefardita d'inizio del secolo. Poi si concentra sulla tomba attorno al quale stavano i personaggi. Quando legge l'iscrizione sulla lapide, lascia quasi cadere la foto. Si stropiccia gli occhi per essere sicuro di aver letto bene. Non c'era alcun dubbio. La foto è stata scattata nel vecchio cimitero di Safed, e la tomba era quella del grande kabbalista e zaddik Rabbi Shlomo Alkabetz, l’autore di "Lechà Dodì".

"David spiega a Mochi, con voce tremante per l'eccitazione, chi era il suo antenato." Era un amico del Ari zal , un grande saggio, un giusto, un mistico. E, vedi Mochi, è il vostro antenato che ha scritto questa melodia che non abbiamo smesso di cantare questo Shabbat: Lechà Dodì ".

Questa è stata la volta di Mochi a restare senza voce. David si alza lentamente, ancora sotto shock per l'accaduto. Tendendogli una mano tremante, gli dice: "Benvenuto a casa, Mochi! Ed ora, che ne dici di scegliere un nome nuovo?"

Estratto da "Monsey, Kiryat Sefer, and Beyond” di Zev Roth

La storia è vera, solo i nomi sono stati cambiati.

 

Traduzione a cura di Marcello Hassan

1 commento 

  • da Elizabeth Benites Questa storia è meravigliosa, ci riempe di pace ed speranze per un futuro, la paura, il fanatismo, il potere ci fanno vedere nemici per tutti gli angoli, e ci separanno e ci dividino, e ci classificano, ma Dio nella sua grande misericordia ci UNE e ci riunisce, con il richiamo del suo sangue, e con la potenza del suo amore, a lui sia tutta la nostra adorazione.

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