Giuseppe Di Stefano

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di Elena Lattes

Nato in una famiglia umile di un paesino vicino a Catania pochi giorni prima della morte di Enrico Caruso, Giuseppe Di Stefano emigrò con i genitori a Milano quando era ancora piccolo. Appurata la mancanza di vocazione per la vita sacerdotale, dopo tre anni di seminario, si iscrisse all’istituto magistrale, dove un compagno appassionato di lirica scoprì quasi per caso il suo talento e lo incoraggiò pagandogli le prime lezioni di canto.  Non ancora diciottenne vinse un concorso “per voci grezze”, guadagnandosi una foto sul Corriere della Sera. Arruolato nel 1941, riuscì ad evitare la partenza per il fronte russo, ma dopo l’8 settembre 1943  fu costretto a rifugiarsi in Svizzera, dove venne internato in un campo di raccolta. Lì imparò il tedesco (uno dei pochi cantanti a padroneggiarlo) e, in pratica, cominciò la sua carriera, esibendosi alla radio di Losanna come interprete di musica leggera .

A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta appunto nel 2008, il musicologo Gianni Gori, collaboratore con il Piccolo di Trieste, gli ha voluto dedicare un piccolo volume, “Giuseppe Di Stefano Voglio una vita che non sia mai tardi”, pubblicato dalla Zecchini Editore. Una “trasvolata veloce” e “una riflessione dal ritmo lieve non senza qualche sorriso” che fa conoscere tanti aspetti della personalità del tenore e dell’ambiente che lo ha circondato, “cogliendo pure i momenti più significativi della sua biografia”.

Gori si sofferma molto sulla spontaneità e sulla capacità di Di Stefano di cavalcare il palcoscenico con classe, paragonandolo al Clark Gable in “Via col vento” e all’Hanphrey Bogart in “Casablanca”. Il portamento e la presenza divistica del cantante, che si possono intuire anche dalle numerose fotografie presenti nel libro, erano tipici di “chi ha imparato presto come, nello spettacolo d’opera, l’artista deve far sentire di esserci anche quando cantano gli altri. Più della prestanza, vale la comunicativa che irradia forza.” Un tenore che privilegiò sempre l’istinto a scapito della tecnica, “la sregolatezza rispetto al genio” e che fu la “quintessenza della naturalezza e della morbidezza”. Altrettanto naturale era il suo senso pragmatico, tipico di chi è cresciuto in un ambiente povero,  che lo portò ad accettare qualunque incarico, compreso quello di partecipare al Festival di San Remo nel 1966 con “Per questo voglio” (testo di Mogol e musica di Mansueto De Ponti) e a rispondere in maniera pungente, più irritata che ironica, a chi lo criticò per questo: “Faccio il cantante e canto quel che mi offrono. Non capisco che differenza ci sia fra una canzone e una romanza d’opera… Noi facciamo i cantanti per i quattrini, perché la gloria l’attacchiamo al tram”. Un tenore di successo, amato dal pubblico anche all’estero, che faceva coppia fissa con la Callas, che aveva cantato con la Simionato e la Tebaldi, interpretando anche ruoli drammatici, che fu capace, insomma, di “buttarsi sulla cresta dell’onda, come un surfista audace, consapevole più del godimento che del rischio e del fisiologico declino.”

Nel lavoro, si tuffò “fino a stordirsi” anche quando dovette affrontare la lunga sofferenza di una dei suoi tre figli che, non ancora ventenne, venne stroncata dal cancro. Perdita che, insieme a quella di suoi colleghi, come appunto la Callas, lo portarono, in tarda età, a ritirarsi preferendo “vivere lontano dalla confusione del mondo dello spettacolo” e a rispondere ad un’intervistatrice: “In fondo sono un timido, nel profondo del mio essere ho sempre desiderato restare nell’ombra. Per questo sono andato a vivere nel Kenya… L’Africa mi ha cambiato. Prima ero legato alla mondanità, ai ristoranti lussuosi, alle grandi città. Adesso invece adoro il vento, il silenzio, gli spazi infiniti della savana, il sole, i colori di quella terra selvaggia. Mangio quasi esclusivamente frutta, e dormo all’aria aperta, all’ombra degli alberi, come fanno i vecchi leoni.”

 

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