Attenberg Jami: I Middlestein

LibriAttenberg Jami: I Middlestein

di Mara Marantonio

“Non ti disgusta essere grassa? Dai, mamma. Tu ed io. Siamo grasse” “Non mi piace quella parola” sussurrò Edie.

Gradevolissimo nella sua (solo apparente) giocosa ironia questo romanzo di un’ancor giovane Autrice americana, Jami Attenberg, esordiente per il pubblico italiano.

Nata nel 1971 in una famiglia ebraica, cresciuta a Buffalo Grove (Illinois), laureata alla Johns Hopkins University, dopo alcuni saggi e un paio di romanzi ecco la notorietà con “I Middlestein”. Uscito in Patria nel 2012, l’opera è stata accolta con grande favore da critica e pubblico, entrando nella classifica dei libri più venduti di quell’anno negli U.S.A.

Ora l’Editore Giuntina ce la fa conoscere.

Il romanzo, ambientato nella stessa località vicino a Chicago in cui è vissuta Jami, ha per protagonista una famiglia della media borghesia ebraica, i Middlestein, composta da due coniugi sui sessant’anni, sposati da oltre un trentennio, Edie (avvocato) e Richard (farmacista), nonché dai loro due figli: Benny, tranquillo padre di due gemelli tredicenni, Josh ed Emily, che non disprezza una “canna” ogni tanto per darsi un po’ di coraggio, marito della superimpegnata e spesso tesa Rachelle; e Robin, donna tormentata, battagliera e alla perenne ricerca della propria realizzazione, single.

Al centro della vicenda c’è Edie. Nata Herzen, è figlia di una coppia di ebrei immigrati dall’Ucraina, assai diversi tra loro quanto ad aspetto fisico, carattere, abitudini. La madre era un tipo solare, alta, grossa, spendacciona; il padre, invece, allampanato, magrissimo, con una testa carica di capelli scuri, aveva dovuto affrontare nella vita numerose difficoltà e, proprio a causa delle privazioni patite anni prima, a cominciare dalla fame che lo aveva tormentato durante il lungo viaggio dalla terra natia fino a Chicago, era divenuto col tempo davvero insaziabile: “spazzolava” letteralmente qualsiasi cibo gli capitasse sottomano, senza nemmeno fermarsi un attimo a guardarsi intorno. Ciononostante non ingrassava di un etto. In contrasto tra loro perfino in tema di frequentazioni religiose, su un punto tuttavia gli Herzen concordavano: il Cibo non solo era frutto d’amore, ma, di per sé, generava amore. E quindi mai negare a se stessi il piacere di mangiarsi, senza ipocriti e fasulli sensi di colpa, qualunque cosa fosse di loro gradimento. Così avevano allevato la loro bambina, la quale, già a cinque anni, come leggiamo nell’esilarante scena iniziale, era in sovrappeso rispetto alla sua età. In più, la piccola (figlia unica) era sempre desiderosa di stare al centro dell’attenzione, di venire coccolata e, per di più, restia a muoversi con le proprie gambe. Vuoi mettere com’è più piacevole ispezionare il mondo tra le robuste braccia della mamma, rispetto al poco che si vedrebbe arrabattandosi, da fessi, laggiù in basso, costretti a camminare e a far fatica?

Il tempo passa, Edie diviene un brillante avvocato, moglie, madre e, in seguito, nonna. Persona di successo, si direbbe, ma il problema CIBO resta. E’ ossessionata da quello che chiamiamo junk food -cibo spazzatura-, ne ingurgita a tutte le ore ingrassando a dismisura e compromettendo la propria salute. Il marito, sposato da lei senza troppa convinzione in un momento di difficoltà personali, è il tipico coniuge all’antica, assente e distaccato, che non intende certo affrontare la situazione inducendo la moglie a sottoporsi a una dieta drastica. Ciò comporterebbe anche per lui duri sacrifici, perché Edie, viziata fin da piccola dai genitori, con una forte personalità e un carattere difficile, non intende affatto mutar registro.

Inevitabile conseguenza: ad un certo punto l’uomo getta la spugna e abbandona il campo di battaglia. Del resto, era tanto tempo che trascorreva tutte le giornate nel mondo asettico delle diverse farmacie di sua proprietà. Un ottimo sistema per star lontano da consorte e problemi. Quella consorte alla quale in precedenza aveva rimproverato l’eccessiva attenzione al proprio lavoro, fatto che, è chiaro, suscitava in lui logorante invidia. Tra le righe emergono particolari all’apparenza insignificanti, ma che pian piano consentono di comprendere la causa del fallimento della coppia: l’incapacità in Richard di tener testa a quella donna dal temperamento prorompente. Per lui, lasciata la moglie, ecco aprirsi la prospettiva di una nuova trionfante esistenza; potrà riagguantare l’amato quieto vivere? L’Autrice segue con attenzione sarcastica le avventure del Sig. Middlestein.

Spetta ora ai figli gestire la situazione. Robin, insegnante, è una “ex grassa”, ora alle prese con una speciale predilezione per i bicchieri di buon vino, la quale cerca invano di rendere consapevole la madre del fatto che, continuando su una simile strada, finirà per morire anzitempo. Già Edie ha dovuto sottoporsi ad un paio d’interventi chirurgici per salvare le gambe, piuttosto compromesse, in primo luogo quanto a circolazione; per non parlar del cuore, del diabete. Coma glicemico che bussa con insistenza alla porta. Ma Robin è un’insicura, dunque non adatta a indirizzare il prossimo, ed ha un rapporto problematico con la realtà circostante, a cominciare dal proprio essere ebrea. A tale proposito cerca di aiutarla l’amico -e quasi (mai rischiare) compagno-, Daniel, un tipo un po’ strampalato, ma gradevole ed estroverso, quel “simpatico zoticone”, come lo definiscono gli amici dei genitori, sempre prodighi di pettegolezzi, un po’ meno di validi aiuti. A proposito del seder di Pesach e della riluttanza di lei ad esserne coinvolta, egli osserva: “Potresti partecipare solo per poterti sentire collegata a qualcosa più grande di te….Mi fa sentire sicuro. Che non sono solo”. Ma, a tacer d’altro, Robin è adirata col padre: non può perdonargli di aver lasciato sola la mamma. Benny, invece, l’altro figlio, assomiglia al genitore nella sua atarassica indifferenza; preferirebbe che le cose seguissero il loro corso: dà un generico aiuto pratico, ma senza eccessiva convinzione. L’unica seria reazione in lui è espressa dai capelli, i quali, allorché i guai della madre si fanno sempre più gravi, incominciano inesorabilmente a cadere.

Chi invece è determinata ad agire è la moglie di Benny, Rachelle, la Perfettina presente come il prezzemolo in ogni famiglia che si rispetti. Madre borghese, casalinga come da copione, amante dei cibi biologici e convinta salutista, pur a sua volta non disdegnante uno spinello -ma solo di rado e che non si sappia in giro!-, è decisa a tirar fuori la suocera dai pasticci con lo stessa meticolosità profusa nell’accurata / concitata preparazione dell’ormai prossimo b’nei mitzvah dei figli. Inutile sottolineare che tanta determinazione non sortirà alcun effetto.

Edie è persona con indubbie risorse personali, sensibile, che soffre molto -anche se si rifiuta di ammetterlo perfino con se stessa- quando, a causa dei dannati problemi di salute, viene posta in pensionamento anticipato da parte dello studio legale in cui lavora. E’ sempre disponibile a dare una mano al prossimo: tanto che Kenneth, talentuoso chef proprietario di un ristorante cinese, aiutato da Edie a superare un difficile periodo, dovuto a vari problemi di carattere legale, si innamora di lei, della sua incredibile mole, dei suoi sensuali riccioli scuri. Ed è proprio osservando la voluttà con cui la nonna si abbandona senza freni ai calorici cibi orientali e ai baci appassionati del nuovo amico, che la giovanissima Emily, uno dei due figli di Benny e Rachelle, tipo sveglio e schietto, comprende quanto sia impossibile fermare quella corsa verso il baratro e che Edie non si sottoporrà mai ad una drastica cura dimagrante, come vorrebbero familiari, medici e comune buon senso.

Il racconto si fa, col progredire della lettura, sempre più coinvolgente. Con una prosa ricca di sfumature in grado di regalarci deliziosi quadretti di costume, come le impagabili considerazioni messe in bocca ad un gruppo di amici dei protagonisti (gl’inossidabili Cohn, Grodstein, Weinman, Franken) in occasione della festa religiosa dei ragazzi Middlestein, Jami Attenberg sa cogliere l’infinita complessità di quel mondo chiamato Famiglia.

Infatti ce lo presenta -con la ricca aggiunta che si tratta di una famiglia ebraica- attraverso l’angolo di visuale costituito da un problema da sempre presente, il Cibo: nel nostro caso la sua abbondanza, tipica dei contesti industrializzati; a cominciare dagli U.S.A., dove la società è divisa tra fanatici del fitness ed obesi, figure che non di rado convivono nella stessa persona. Tematica universale quella del cibo e delle sue implicanze psicologiche, sociali, economiche, culturali. Prova ne è il fatto che non solo il romanzo sta per uscire in numerosi Paesi, quali Russia, Turchia, Taiwan, Germania, Francia Olanda, Israele e Gran Bretagna; ma è pure significativo che esso sia divenuto lettura obbligatoria per il Master in “Scienza della Nutrizione” dell’Università di Portland, nell’Oregon.

I personaggi femminili sono dominanti, a tutto tondo; basti pensare in primo luogo a Edie; e pure a Robin, tormentata, insicura, ma rumorosa, con quella bocca “che aveva ereditato da sua madre: chiassosa, forte, autoritaria e moralistica”. O a Rachelle, pronta a dar lezioncine di vita a tutti. Gli uomini, per contro, restano in sottordine, permeati di fatalismo come Benny o intenti, è il caso di Richard, a crogiolarsi nel rimpianto insincero di una passata epoca d’oro -caratterizzata da “quella” donna, ora perduta forse a causa di un destino cinico e crudele, non certo per colpa di lui, sia chiaro….- in un processo di auto assolvimento davvero da manuale.

Al di là del tono lieve, spesso affettuoso e, a tratti, indulgente, di Jami, ci troviamo di fronte ad una storia tragica: nessuno si rivela in grado di aiutare Edie perché è lei stessa che non vuole salvarsi, almeno secondo le regole della normale logica. Il cibo è il mezzo attraverso il quale ella realizza il suo insopprimibile cupio dissolvi, ma pure esprime il suo disperato bisogno d’amore. Il cibo, da bambina, era espressione del suo desiderio di vita; ma quando ella, adulta, si accorge del proprio fallimento affettivo ed esistenziale, lo stesso cibo diviene strumento per realizzare un insopprimibile istinto di morte. E occasione per nascondersi, come comprenderà troppo tardi il marito, ormai uscito dalla sua vita: un nascondiglio da fallimenti, delusioni, amore non corrisposto.

La sottoscritta commentatrice può attestare come simili meccanismi psicologici, niente affatto frutto di fervida fantasia letteraria, siano non di rado riscontrabili nelle diverse frequentazioni quotidiane. Il venefico rifugio può essere, di volta in volta, il cibo (o il suo contrario, il rifiuto anoressico di esso) oppure, perché no, una funerea camera da letto, zeppa di cimeli -preferibilmente fotografici- del mitico tempo che fu, dove oziare, magari aggrappandosi a reali (ma comuni) problemi di salute ingigantiti a bella posta, nella non volontà, irresponsabile, di prendere in mano il proprio destino.

 

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