L'ultima famiglia ebraica siriana

AttualitàL'ultima famiglia ebraica siriana

di Alessandra Boga

Sembra la trama di un film: all’inizio di quest’anno, come svela il “Jewish Chronicle” di Londra, un uomo d’affari israelo-americano nato a Gerusalemme, Moti Kahana, molto vicino ad alcuni gruppi ribelli anti-Assad, scopre, grazie a loro, che ad Aleppo vive l’ultima famiglia ebraica ancora presente in Siria – quella degli Halaby, appartenente ad una delle comunità più antiche della Diaspora ormai distrutta dalla dittatura araba e dal fondamentalismo islamico – e con l’aiuto di Tsahal, l’esercito israeliano, cerca di farla fuggire rocambolescamente su un pulmino verso la Turchia. Non c’è tempo da perdere: gli uomini dell'Isis (Daesh) hanno scoperto la sua esistenza e perciò la vita dei suoi membri è a rischio.

La famiglia Halaby è composta da Mariam, 88 anni, dalle figlie Sarah e Gilda, quest'ultima sposata con il musulmano Khaled, e dai loro tre bambini. Kahana riesce a fare avere loro un messaggio in cui si rende disponibile a metterli in salvo, visto che sono in pericolo, ma la famiglia ha paura. Quando, senza avvisarli, vengono a prenderli su un minibus tre soldati di Tsahal per portarli al sicuro, gli Halaby pensano al peggio: ai soldati di Assad o ai terroristi dell’Isis. Viene detto loro che hanno pochi minuti per preparare le loro cose e, appena saliti sul mezzo, ricevono dei passaporti siriani nuovi.

Compiono un viaggio di 36 ore verso il confine con la Turchia – invece il guidatore del pulmino, per non spaventarli, aveva detto loro che sarebbero andati a New York.  Il viaggio è molto pericoloso, tanto che ad un certo punto vengono persino fermati da un jihadista dell’Isis che controlla i loro documenti. Il guidatore racconta al miliziano che quella che trasporta è “una famiglia di rifugiati che va verso Nord per sfuggire al regime di Assad” e fortunatamente lui abbocca. Il pulmino può procedere verso Istanbul, dove gli Halaby vengono accompagnati in una casa in cui Kahana li attende per accompagnarli ad un’Agenzia ebraica per l’immigrazione in Israele (“Sochnut”). L’uomo d’affari israelo-americano ha infatti consigliato alla famiglia di non recarsi in America ma nello Stato ebraico, in modo che, in quanto ebrea, possa beneficiare della “Legge del Ritorno” e fare l’Aliyah.

Mariam e sua figlia Sarah hanno effettivamente la possibilità di partire, con destinazione Ashkelon, ma per Gilda c’è un problema: si è convertita all’Islam per sposare Khaled, perciò non può emigrare immediatamente. Così, dopo un mese di interrogatori e di fallite “trattative” con l’Agenzia ebraica, la coppia decide di tornare in Siria, anche perché è rimasta senza soldi e senza cibo e non vuole continuare a vivere in un campo profughi siriano in Turchia. Kahana discute con i membri della Sochnut, il cui portavoce, però, risponde che l’organismo “non ha alcuna autorità per decidere di permettere o rifiutare l’ingresso di chiunque in Israele. Il nostro compito – spiega – è di determinare la possibilità degli individui di fare l’Alyah basandoci sulla Legge del Ritorno. La decisione per entrare o meno in Israele la prende il Ministero degli Interni, non noi”. A quel punto Gilda si dà da fare per procurarsi i documenti necessari per la partenza per Israele, documenti che secondo la prassi vengono sottoposti all’attenzione del Ministero dell’Interno dello Stato ebraico. Tuttavia, anche se quest’ultimo dà finalmente il permesso di emigrare a Gilda e a Khaled, sebbene non in base alla “Legge del Ritorno”, la donna preferisce tornare nel Paese d’origine in guerra.

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